Accedi all'area personale per aggiungere e visualizzare i tuoi libri preferiti
Con l'espressione dialetti calabresi si definiscono le varietà linguistiche romanze parlate nella regione italiana della Calabria e in alcune città brasiliane dello stato di San Paolo dai discendenti di calabresi emigrati. Appartengono a due gruppi diversi: quello meridionale, conosciuto anche come diasistema della lingua napoletana ('e parrate calabbrise); quello meridionale estremo, o diasistema della lingua siciliana, e identificato anche come tricalabro da Ethnologue (i parrati calabbrisi);Del gruppo meridionale o napoletano fanno parte le varietà cosentine del nord della regione, mentre sono di tipo meridionale estremo o siciliano quelle in uso nella zona centro-meridionale che annoverano il calabrese centrale e il meridionale. Tale divisione linguistica corrisponde molto approssimativamente alla storica divisione amministrativa delle "Calabrie": Calabria Citeriore (o Calabria latina) e Calabria Ulteriore (o Calabria greca). I dialetti calabresi sono fra i dialetti d'Italia che più di altri hanno attirato l'attenzione degli studiosi per le proprie peculiarità e le radici in tempi antichi. L'evidente diversità linguistica nell'ambito della stessa regione, il rapporto tra impronta greca antica (grecanica) e storia della Calabria, la più o meno precoce latinizzazione ed i "relitti" lessicali di altre lingue, la forte presenza della minoranza albanese (arbëreshë), sono oggi argomento di studio e discussione di glottologi e linguisti. Chi voglia infatti paragonare i dialetti della Calabria meridionale con quelli parlati nella Calabria del nord, non può non notare il forte contrasto esistente. Un esempio è la forma del tempo perfetto indicativo (che include passato remoto e passato prossimo dell'italiano), che ha due forme nelle due diverse zone: nel Nord-Calabria è un tempo composto, simile al passato prossimo italiano; nel Sud-Calabria invece, è un tempo semplice che ricorda il passato remoto italiano, da cui il grande errore di chiamare "passato remoto" questo tempo anche in calabrese (in realtà equivale esattamente al perfetto latino, dal quale deriva). Infatti, anche un'azione non remota è espressa col tempo perfetto: Mangia(v)i, mo vaju u fatigu = Ho mangiato, adesso vado a lavorare. Mangiavi, mo vaju ma faticu (in dialetto catanzarese) Mangiai, ora vaju e travagghiu (in dialetto reggino)
Con l'espressione dialetti d'Abruzzo si definiscono le varietà linguistiche romanze parlate nella regione italiana dell'Abruzzo (con dialetto si intende, a seconda dell'uso, una lingua contrapposta a quella nazionale o una varietà di una lingua). Tale territorio non si presenta unitario dal punto di vista linguistico, in quanto dette varietà appartengono a due gruppi diversi delle lingue italoromanze: il dialetto sabino, che appartiene al continuum dei dialetti italiani mediani o italiano centrale il gruppo abruzzese dei dialetti italiani meridionali identificati anche come lingua napoletana o napoletano-calabrese.
I dialetti umbri sono un continuum linguistico di dialetti diffusi nella regione amministrativa italiana dell'Umbria. Questi sono appartenenti in maggioranza al gruppo dialettale mediano italiano. In alcune zone dell'Umbria sono parlati anche dialetti di influenza toscana per ragioni di prossimità. Nelle zone settentrionali dell'Altotevere Umbro a confine con la provincia di Pesaro-Urbino sono presenti influenze romagnole. In quest'area secondo alcuni studiosi c'è ancora il mediano umbro di base, mentre secondo altri si hanno già dialetti a sé stanti con forte influenza toscana e romagnola.
I dialetti della Puglia, storicamente parlati nell'attuale regione amministrativa, non formano una compagine omogenea: infatti i dialetti parlati nei settori centro-settentrionali della regione rientrano nel gruppo meridionale intermedio, mentre i dialetti salentini, parlati nella parte meridionale della regione, appartengono al gruppo meridionale estremo. Il tratto principale che separa i due gruppi pugliesi è il trattamento delle vocali atone, ossia non accentate, soprattutto in posizione post-tonica: in molti dei dialetti alto-meridionali queste subiscono il noto mutamento in /ə/ (vocale popolarmente definita “indistinta” e trascritta solitamente come "e"), mentre ciò non accade nel gruppo salentino né negli altri dialetti della lingua calabro-siciliana. Si tratta della stessa divisione che intercorre fra Calabria settentrionale e Calabria centro-meridionale, e dunque – nell'insieme – fra lingua napoletana/pugliese e lingua calabro-siciliana: molto più a nord, la diversità sistematica forma anche il confine con i dialetti italiani mediani. Tale affievolimento delle vocali non accentate comporta delle ripercussioni sui fatti morfologici, ad esempio sulle variazioni di genere o di numero dei sostantivi (mediante il fenomeno della metafonesi) nonché sulla coniugazione dei verbi. Lungo la linea di demarcazione fra napoletano e siciliano potrebbero sussistere dialetti di transizione come il tarantino, ma è più probabile che questi (come altri "ibridi" distribuiti qua e là nella penisola italiana) rientrino nell'una o nell'altra lingua. Infine esistono in Puglia isole linguistiche arbëreshë, grecaniche e francoprovenzali, che sono però da considerarsi alloglotte (ossia parlate non-italiche).
Le lingue dell'Italia costituiscono, a detta di alcuni autori, il patrimonio linguistico più ricco e variegato all'interno del panorama europeo. Ad eccezione di taluni idiomi stranieri legati ai moderni flussi migratori, le lingue che vi si parlano sono esclusivamente di ceppo indoeuropeo e appartenenti in larga prevalenza alla famiglia delle lingue romanze: compongono il paesaggio linguistico, altresì, varietà albanesi, germaniche, greche e slave. La lingua ufficiale della Repubblica Italiana, l'italiano, discende storicamente dal toscano letterario, il cui uso in letteratura è iniziato con i grandi scrittori Dante, Petrarca e Boccaccio verso il XIII secolo, e si è in seguito evoluto storicamente nella lingua italiana corrente. La lingua italiana era scritta solo da una piccola minoranza della popolazione al momento dell'unificazione politica nel Regno d'Italia nel 1861, ma si è in seguito diffusa, mediante l'istruzione obbligatoria esclusivamente in lingua italiana standard e il contributo determinante e più recente della televisione che vede escluso, o molto limitato, l'uso sia dei dialetti che delle lingue di minoranza (salvo quanto previsto dagli accordi internazionali sottoscritti dall'Italia dopo la seconda guerra mondiale a favore delle minoranze linguistiche tedesca della provincia di Bolzano, slovena della regione Friuli-Venezia Giulia e francese della Valle d'Aosta) nonostante il fatto che, nel secondo caso, la legge 482/99 preveda l'obbligo per la RAI di trasmettere anche nelle lingue delle minoranze linguistiche.Dal punto di vista degli idiomi locali preesistenti, ne consegue un processo di erosione linguistica e di minorizzazione, processo accelerato sensibilmente dall'ampia disponibilità di mass media in lingua italiana e dalla mobilità della popolazione, oltre ad una scarsa volontà politica di tutelare le minoranze linguistiche (art. 6 Cost e L. 482/99) e riconoscere una valenza culturale ai dialetti (art. 9 Cost). Questo tipo di cambiamenti ha ridotto sensibilmente l'uso degli idiomi locali, molti dei quali sono ormai considerati in pericolo di estinzione, principalmente a causa dell'avanzare della lingua italiana anche nell'ambito strettamente sociale e relazionale . Negli ultimi anni si è assistito a una loro rivalutazione sul piano culturale in reazione ai processi omologativi della globalizzazione. Nonostante il mancato appoggio dello Stato, secondo varie ricerche più del 60% dei ragazzi parla quotidianamente in "dialetto" (con riferimento ai dialetti dell'Italia, non ai dialetti dell'italiano); tra i vari motivi, i più importanti sono: il desiderio di creare un legame forte con la propria famiglia (67%), volontà di conoscere la storia di determinati termini ed espressioni (59%) o possibilità di arricchire il proprio parlato con espressioni colloquiali (52%) e naturalmente lo spirito di appartenenza alla propria terra. Secondo i più recenti dati statistici il 45,9% degli italiani parla in modo esclusivo o prevalente l'italiano, il 32,2% lo alterna con una lingua locale, mentre solo il 14% si esprime esclusivamente nell'idioma locale, il resto ricorre ad un'altra lingua. Il noto linguista Tullio De Mauro, intervistato da un quotidiano nazionale il 29 settembre 2014, affermava che l'uso alternante di italiano e dialetto arriva oggi al 44,1% e coloro che adoperano solo l'italiano sono il 45,5%.Sempre secondo De Mauro, il plurilinguismo "italiano + dialetti o una delle tredici lingue di minoranza" gioca un ruolo positivo in quanto «i ragazzi che parlano costantemente e solo italiano hanno punteggi meno brillanti di ragazzi che hanno anche qualche rapporto con la realtà dialettale».
Con dialetto toscano si intende un insieme di vernacoli (ossia un continuum dialettale) di ceppo romanzo diffuso nell'area d'Italia corrispondente all'attuale regione Toscana, con l'esclusione delle parlate della Romagna toscana, di quelle della Lunigiana e di quelle dell’area carrarese.Caratteristica principale di tali idiomi è quella di essere sostanzialmente parlati; ciò garantisce una chiara distinzione dall'italiano, che da sempre (e soprattutto fino al 1860) è stata una lingua quasi esclusivamente scritta, letteraria, aristocratica, parlata dalle élite scolarizzate. Il toscano quindi è un sistema linguistico allo stesso tempo innovativo (grazie all'uso vivo), ma anche conservativo, arcaizzante, grazie al suo (ancora oggi forte) legame con le aree più rurali della regione. Tradizionalmente, il toscano non era considerato un dialetto italiano data la grande somiglianza con l'italiano colto di cui, peraltro, è la fonte (sia pure modificatasi nel tempo rispetto alla parlata odierna) perché ritenuto, erroneamente, una semplice variante o vernacolo dell'italiano. I primi contributi letterari significativi in toscano risalgono al XIII-XIV secolo con le opere di Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, e successivamente nel XVI secolo con Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, che conferirono ai parlari toscani la dignità di "lingua letteraria" della penisola. Al momento dell'unificazione dell'Italia fu scelto come lingua da adoperare ufficialmente, mettendo fine a una secolare discussione, a cui aveva partecipato anche Dante (nel De vulgari eloquentia), che vedeva due fazioni contrapposte, una che sosteneva la nascita di una lingua italiana sulla base di uno dei cosiddetti dialetti e un'altra che si proponeva di creare una nuova lingua che prendesse il meglio dai vari dialetti. Prese piede agli inizi del XIX secolo proprio la prima corrente, soprattutto grazie al prestigioso parere di Alessandro Manzoni (molto nota è la vicenda relativa alla scelta della lingua per la stesura de I promessi sposi e i panni sciacquati in Arno), ma non poche furono le critiche mossegli da chi sosteneva (in primo luogo il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli) che il toscano era un dialetto come gli altri e una vera lingua nazionale sarebbe potuta nascere solo dopo l'incontro tra le varie culture del paese.
L'italiano centrale, conosciuto anche come italiano mediano è un continuum dialettale raggruppante una varietà di parlate romanze ben differenziate fra loro ma con un certo numero di caratteristiche fonetiche e sintattiche comuni, esteso nell'Italia centrale.
I dialetti del Lazio sono classificati entro tre gruppi fondamentali: dialetti italiani mediani, dialetti italiani meridionali e dialetti veneti. Ai dialetti italiani mediani appartengono il romanesco, il dialetto sabino, il dialetto ciociaro, dialetti dei Castelli Romani e i dialetti della Tuscia viterbese; ai dialetti italiani meridionali appartiene il dialetto laziale meridionale e, in alcune aree al confine con la Campania, il dialetto campano; ai dialetti veneti appartiene il dialetto venetopontino. Il Lazio, dunque, come le altre regioni centrali dell'Umbria e delle Marche, ha una situazione dialettale non unitaria; la linea Roma-Ancona, infatti, è uno dei confini di maggiore importanza nell'ambito dei dialetti italiani
Cazzo è una parola della lingua italiana di registro colloquiale basso che indica, in senso proprio, il pene. Non è un semplice sinonimo del termine anatomico, bensì rappresenta una forma dell'espressività letteraria e popolare. Talvolta nella lingua parlata può essere utilizzato per il compiacimento nell'uso di un termine proibito o di registro eccessivo, il che non può essere reso dal semplice uso di «pene!». Il termine è usato piuttosto spesso nella lingua parlata anche senza correlativo semantico, con la funzione linguistica di "rafforzativo del pensiero", ovvero come un intercalare con funzione emotiva per rendere un'espressione colorita o enfatica. L'uso come intercalare sembra essere più diffuso in Italia che nel Canton Ticino. Presumibilmente di origine dialettale ma in uso già nella letteratura rinascimentale, ha il suo omologo femminile in fica (o figa), frutto della stessa selezione fra le definizioni locali regionali.