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Autore principale: Catoni, Maria Luisa
La retorica è tradizionalmente intesa come l'arte del dire, del parlare, e più specificamente del persuadere con le parole. Il termine viene dal latino rhetorica (ars), a sua volta dal greco antico: ῥητορική τέχνη, rhêtorikề téchnê, 'arte del parlare in pubblico', da ῥήτωρ, 'colui che parla in pubblico', dalla radice del verbo εἴρω, 'io dico'. Disciplina ancora vivace, ha raccolto lungo più di due millenni di storia un insieme assai vasto di dottrine e tecniche, confrontandosi e confondendosi con una molteplicità di discipline (in particolare con l'oratoria) e assumendo essa stessa aspetti e significati alquanto variegati, finendo per essere intesa anche come "teoria generale della comunicazione", tanto che lo storico francese Henri-Irénée Marrou la definì "denominatore comune della nostra civiltà [occidentale]". In termini generali, la retorica può essere intesa come un metodo di organizzazione del linguaggio naturale, non simbolico, secondo un criterio per il quale ad una proposizione segua una conclusione. Lo scopo della retorica è la persuasione, intesa come approvazione della tesi dell'oratore da parte di uno specifico uditorio. Da un lato, la persuasione consiste in un fenomeno emotivo di assenso psicologico; per altro verso ha una base epistemologica: lo studio dei fondamenti della persuasione è studio degli elementi che, connettendo diverse proposizioni tra loro, portano a una conclusione condivisa, quindi dei modi di disvelamento della verità nello specifico campo del discorso. Sotto questo aspetto essa è, come nota Roland Barthes, un metalinguaggio, in quanto «discorso sul discorso».
Iperide, figlio di Glaucippo del demo di Collito (in greco antico: Ὑπερείδης, Hyperéidēs; Atene, 390/389 o 389/388 a.C. – luogo controverso, 9 pianepsione 322 a.C.), è stato un oratore e politico ateniese, uno dei dieci oratori attici inclusi nel Canone alessandrino, che fu compilato nel III secolo a.C. da Aristofane di Bisanzio e da Aristarco di Samotracia. Di famiglia benestante, entrò in politica da giovane, nel 362 a.C., distinguendosi per alcune azioni giudiziarie contro uomini politici molto in vista nell'Atene dell'epoca. Assunta una posizione di rilievo nel partito anti-macedone ateniese (guidato al tempo da Demostene e Licurgo), collaborò con questi nel formare una lega di Stati greci contro Filippo II; dopo la sconfitta subita da questa lega nella battaglia di Cheronea (338 a.C.), promosse un decreto con provvedimenti straordinari per salvare Atene da un eventuale assedio, tra cui la liberazione degli schiavi e dei meteci che si fossero arruolati nell'esercito. Negli anni seguenti, Iperide, pur continuando a militare tra gli antimacedoni, svolse prevalentemente l'attività di logografo, che aveva già intrapreso in precedenza. Nel 324 a.C., in occasione dello scandalo di Arpalo, Iperide si schierò contro Demostene, accusandolo di aver agito contro gli interessi di Atene perché corrotto e ottenendo che fosse dichiarato colpevole. Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro Magno, Iperide e Leostene furono i principali promotori della guerra lamiaca, combattuta contro i Macedoni. Questo conflitto, dopo un iniziale avvio favorevole alla lega greca, vide la morte di Leostene e la disfatta della lega stessa: Demostene riuscì a suicidarsi, mentre Iperide, catturato pochi giorni dopo, fu fatto uccidere dal reggente Antipatro. Definito da Piero Treves come "avvocato abile" e "parlatore elegante", ma "politico molto mediocre", e da Carl Schneider come "primo avvocato in senso stretto della storia", Iperide fu apprezzato più come oratore che come politico. Nell'antichità i pareri sulla sua eloquenza erano divergenti: la scuola di Rodi lo prese come modello; gli oratori romani, in particolare Marco Tullio Cicerone, ne ammirarono l’acumen; gli atticisti del II secolo d.C., però, condannarono aspramente la lingua da lui usata, un dialetto attico non puro, contenente alcuni elementi del sermo cotidianus e altri che testimoniavano il passaggio alla koinè ellenistica. Il giudizio di questi ultimi, in particolare di Ermogene di Tarso, pregiudicò la tradizione delle orazioni di Iperide: attualmente delle sue orazioni, sul cui numero, probabilmente 71, le fonti sono comunque discordi, solo otto sono in buona parte leggibili. Di queste, sei provengono da papiri egiziani non posteriori al III secolo d.C., mentre le altre due sono state rinvenute in un codice bizantino del IX/X secolo, facente parte del Palinsesto di Archimede.
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