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La similitudine (lat. similitudo, gr. parabolé "paragone, confronto tra due o più termini", da cui il termine parabola) è una figura retorica che consiste nel confrontare due identità, in una delle quali si individuano proprietà somiglianti e paragonabili a quelle dell'altra, facendo uso di avverbi quali: come, simile a, sembra, assomiglia, così come, ecc., a differenza della metafora che non si serve di questi ultimi. La similitudine si differenzia dalla comparazione perché nella prima i termini del confronto non sono intercambiabili. La similitudine è particolarmente diffusa nei testi antichi come, per esempio, nella Bibbia: Anche la letteratura classica ha fatto largo uso della similitudine e nell'Eneide, per esempio: Solitamente le similitudini della poesia antica sono piuttosto complesse e si sviluppano per esteso: nella Divina Commedia di Dante Alighieri infatti, se ne incontrano molteplici: Rispetto alla letteratura classica, è raro che gli scrittori moderni usino questa figura retorica così poco rapida ed immediata, che tuttavia troviamo nella poesia di Giuseppe Ungaretti Soldati:
Il parallelismo è la figura retorica di ordine (sintattica) con la quale si sviluppa un'idea attraverso la successione simmetrica, in genere in coppia, con schema A B, A B (dove A rappresenta il verbo e B rappresenta il complemento oggetto), di brevi concetti o elementi grammaticali. Ad esempio: Mandò le tenebre e fece buio. (Salmi, 104, 28)Se combinato con l'iperbato, la figura retorica risultante viene detta sinchisi.
La figura retorica (spesso anche semplicemente chiamata figura; in greco σχῆμα, schêma; in latino figura, da fingo, 'plasma'), in retorica, è, fin dalle sue forme classiche, qualsiasi artificio nel discorso volto a creare un particolare effetto. Si parla di "artificio" in quanto la figura rappresenta, soprattutto nel linguaggio poetico, una "deviazione", uno "scarto" rispetto al linguaggio comune: così le intende il maestro di retorica romano Marco Fabio Quintiliano (I secolo d.C.). Autori come il saggista francese Gérard Genette (in Figure, 1969) hanno evidenziato il paradosso che implica questa definizione, in quanto anche il linguaggio comune è intriso di deviazioni e scarti, con ampio uso delle figure. Dal canto suo, il saggista bulgaro Cvetan Todorov (in Ducrot-Todorov, Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, 1972) ha sottolineato come non ogni figura rappresenti una deviazione dal linguaggio comune (non sono tali, ad esempio, l'asindeto e il polisindeto). Nel complesso, a dispetto del chiaro senso dello scarto che le figure portano con sé, non è facile individuare la norma espressiva rispetto a cui la deviazione verrebbe esercitata.Fu comunque Gorgia da Lentini (V secolo a.C.) il primo ad individuare il ricorrere di espedienti formali nella cura della prosa ricercata, come l'isocolo, l'omoteleuto, l'antitesi. Cicerone (I secolo a.C.) parlò delle figure come di lumina ('luci'), flores ('fiori') e colores ('colori'), per il potere di illuminare il discorso e di attribuirgli varietà e vivacità.
L'epifora (dal greco epiphérō, «porto in aggiunta»), detta anche epistrofe (dal greco epistrophē, «rivolgimento, conversione») o anche desitio, conversio e reversio, è una figura retorica di ordine che consiste nel ripetere la stessa parola o le stesse parole o di egual significato alla fine di frasi o versi successivi, per rinforzare un concetto. È quindi particolarmente enfatica, data la maggiore enfasi naturalmente associata all'ultima parte del periodo. La figura retorica speculare è l'anafora, che consiste nel ripetere la stessa parola all'inizio della frase. L'anafora e l'epifora sono figure caratteristiche della deprecazione, della preghiera e dell'invocazione, in cui la domanda viene rafforzata dalla ripetizione. La figura retorica costituita dall'unione di un'anafora e di un'epifora è chiamata simploche o complexio. Epistrophy è anche il titolo di uno standard composto da Thelonious Monk, che contiene un'epifora musicale.