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I dialetti del Lazio sono classificati entro tre gruppi fondamentali: dialetti italiani mediani, dialetti italiani meridionali e dialetti veneti. Ai dialetti italiani mediani appartengono il romanesco, il dialetto sabino, il dialetto ciociaro, dialetti dei Castelli Romani e i dialetti della Tuscia viterbese; ai dialetti italiani meridionali appartiene il dialetto laziale meridionale e, in alcune aree al confine con la Campania, il dialetto campano; ai dialetti veneti appartiene il dialetto venetopontino. Il Lazio, dunque, come le altre regioni centrali dell'Umbria e delle Marche, ha una situazione dialettale non unitaria; la linea Roma-Ancona, infatti, è uno dei confini di maggiore importanza nell'ambito dei dialetti italiani
Con dialetto toscano si intende un insieme di vernacoli (ossia un continuum dialettale) di ceppo romanzo diffuso nell'area d'Italia corrispondente all'attuale regione Toscana, con l'esclusione delle parlate della Romagna toscana, di quelle della Lunigiana e di quelle dell’area carrarese.Caratteristica principale di tali idiomi è quella di essere sostanzialmente parlati; ciò garantisce una chiara distinzione dall'italiano, che da sempre (e soprattutto fino al 1860) è stata una lingua quasi esclusivamente scritta, letteraria, aristocratica, parlata dalle élite scolarizzate. Il toscano quindi è un sistema linguistico allo stesso tempo innovativo (grazie all'uso vivo), ma anche conservativo, arcaizzante, grazie al suo (ancora oggi forte) legame con le aree più rurali della regione. Tradizionalmente, il toscano non era considerato un dialetto italiano data la grande somiglianza con l'italiano colto di cui, peraltro, è la fonte (sia pure modificatasi nel tempo rispetto alla parlata odierna) perché ritenuto, erroneamente, una semplice variante o vernacolo dell'italiano. I primi contributi letterari significativi in toscano risalgono al XIII-XIV secolo con le opere di Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, e successivamente nel XVI secolo con Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, che conferirono ai parlari toscani la dignità di "lingua letteraria" della penisola. Al momento dell'unificazione dell'Italia fu scelto come lingua da adoperare ufficialmente, mettendo fine a una secolare discussione, a cui aveva partecipato anche Dante (nel De vulgari eloquentia), che vedeva due fazioni contrapposte, una che sosteneva la nascita di una lingua italiana sulla base di uno dei cosiddetti dialetti e un'altra che si proponeva di creare una nuova lingua che prendesse il meglio dai vari dialetti. Prese piede agli inizi del XIX secolo proprio la prima corrente, soprattutto grazie al prestigioso parere di Alessandro Manzoni (molto nota è la vicenda relativa alla scelta della lingua per la stesura de I promessi sposi e i panni sciacquati in Arno), ma non poche furono le critiche mossegli da chi sosteneva (in primo luogo il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli) che il toscano era un dialetto come gli altri e una vera lingua nazionale sarebbe potuta nascere solo dopo l'incontro tra le varie culture del paese.
La gorgia toscana è un fenomeno fonetico che caratterizza, in modo più o meno pronunciato, i dialetti toscani. Più precisamente, la gorgia riguarda le consonanti occlusive sorde (scempie) /k/ /t/ e /p/, e in misura minore le corrispondenti sonore /g/ /d/ e /b/, oltre che le affricate postalveolari /d͡ʒ/ e /t͡ʃ/ che passano a fricative in posizione postvocalica (e in assenza di raddoppiamento sintagmatico). Molti usano ancora il termine spirantizzazione. [k] → [h] → fonema zero (solo in certe zone) [t] → [θ] → fonema zero (solo in certi suffissi) [p] → [ɸ] [g] → [ɣ] [d] → [ð] [b] → [β] [d͡ʒ] → [ʒ] [t͡ʃ] → [ʃ]Un esempio: la parola identificare /identifiˈkare/ verrà pronunciata [iˌdentifiˈhaːre] e non [iˌdentifiˈkaːre]. La gorgia è bloccata dal raddoppiamento sintagmatico: /akˈkasa, parlerakˈkarlo; dakˈkapo/ (a casa, parlerà Carlo, da capo/daccapo). La sequenza [hh] è inesistente nei dialetti italiani. La consonante che subisce il cambiamento più evidente è /k/, il cui indebolimento è diventato il simbolo più importante dei dialetti parlati in Toscana. In alcune zone della Toscana occidentale arriva al dileguo totale [«zero»]). La /t/ e la /p/ subiscono un cambiamento meno diffuso nel territorio toscano settentrionale.
I dialetti umbri sono un continuum linguistico di dialetti diffusi nella regione amministrativa italiana dell'Umbria. Questi sono appartenenti in maggioranza al gruppo dialettale mediano italiano. In alcune zone dell'Umbria sono parlati anche dialetti di influenza toscana per ragioni di prossimità. Nelle zone settentrionali dell'Altotevere Umbro a confine con la provincia di Pesaro-Urbino sono presenti influenze romagnole. In quest'area secondo alcuni studiosi c'è ancora il mediano umbro di base, mentre secondo altri si hanno già dialetti a sé stanti con forte influenza toscana e romagnola.
Le lingue dell'Italia costituiscono, a detta di alcuni autori, il patrimonio linguistico più ricco e variegato all'interno del panorama europeo. Ad eccezione di taluni idiomi stranieri legati ai moderni flussi migratori, le lingue che vi si parlano sono esclusivamente di ceppo indoeuropeo e appartenenti in larga prevalenza alla famiglia delle lingue romanze: compongono il paesaggio linguistico, altresì, varietà albanesi, germaniche, greche e slave. La lingua ufficiale della Repubblica Italiana, l'italiano, discende storicamente dal toscano letterario, il cui uso in letteratura è iniziato con i grandi scrittori Dante, Petrarca e Boccaccio verso il XIII secolo, e si è in seguito evoluto storicamente nella lingua italiana corrente. La lingua italiana era scritta solo da una piccola minoranza della popolazione al momento dell'unificazione politica nel Regno d'Italia nel 1861, ma si è in seguito diffusa, mediante l'istruzione obbligatoria esclusivamente in lingua italiana standard e il contributo determinante e più recente della televisione che vede escluso, o molto limitato, l'uso sia dei dialetti che delle lingue di minoranza (salvo quanto previsto dagli accordi internazionali sottoscritti dall'Italia dopo la seconda guerra mondiale a favore delle minoranze linguistiche tedesca della provincia di Bolzano, slovena della regione Friuli-Venezia Giulia e francese della Valle d'Aosta) nonostante il fatto che, nel secondo caso, la legge 482/99 preveda l'obbligo per la RAI di trasmettere anche nelle lingue delle minoranze linguistiche.Dal punto di vista degli idiomi locali preesistenti, ne consegue un processo di erosione linguistica e di minorizzazione, processo accelerato sensibilmente dall'ampia disponibilità di mass media in lingua italiana e dalla mobilità della popolazione, oltre ad una scarsa volontà politica di tutelare le minoranze linguistiche (art. 6 Cost e L. 482/99) e riconoscere una valenza culturale ai dialetti (art. 9 Cost). Questo tipo di cambiamenti ha ridotto sensibilmente l'uso degli idiomi locali, molti dei quali sono ormai considerati in pericolo di estinzione, principalmente a causa dell'avanzare della lingua italiana anche nell'ambito strettamente sociale e relazionale . Negli ultimi anni si è assistito a una loro rivalutazione sul piano culturale in reazione ai processi omologativi della globalizzazione. Nonostante il mancato appoggio dello Stato, secondo varie ricerche più del 60% dei ragazzi parla quotidianamente in "dialetto" (con riferimento ai dialetti dell'Italia, non ai dialetti dell'italiano); tra i vari motivi, i più importanti sono: il desiderio di creare un legame forte con la propria famiglia (67%), volontà di conoscere la storia di determinati termini ed espressioni (59%) o possibilità di arricchire il proprio parlato con espressioni colloquiali (52%) e naturalmente lo spirito di appartenenza alla propria terra. Secondo i più recenti dati statistici il 45,9% degli italiani parla in modo esclusivo o prevalente l'italiano, il 32,2% lo alterna con una lingua locale, mentre solo il 14% si esprime esclusivamente nell'idioma locale, il resto ricorre ad un'altra lingua. Il noto linguista Tullio De Mauro, intervistato da un quotidiano nazionale il 29 settembre 2014, affermava che l'uso alternante di italiano e dialetto arriva oggi al 44,1% e coloro che adoperano solo l'italiano sono il 45,5%.Sempre secondo De Mauro, il plurilinguismo "italiano + dialetti o una delle tredici lingue di minoranza" gioca un ruolo positivo in quanto «i ragazzi che parlano costantemente e solo italiano hanno punteggi meno brillanti di ragazzi che hanno anche qualche rapporto con la realtà dialettale».
I dialetti italiani meridionali (o meridionali intermedi, o ancora alto-meridionali, in epoca medievale noti con il nome collettivo di volgare pugliese) costituiscono, nella classificazione dei dialetti d'Italia elaborata da Giovan Battista Pellegrini, una sezione del più ampio raggruppamento dei dialetti centro-meridionali (nella fattispecie per "dialetti" si intendono gli "idiomi contrapposti a quello nazionale e/o ufficiale", e non invece le "varietà di una lingua"). Secondo una classificazione ormai consolidata sin dagli ultimi decenni del XIX secolo, il territorio dei dialetti alto-meridionali si estende dunque dall'Adriatico al Tirreno e allo Jonio, e più precisamente dal corso del fiume Aso, a nord (nelle Marche meridionali, al confine fra le province di Ascoli Piceno e Fermo), fino a quello del fiume Coscile, a sud (nella Calabria settentrionale, provincia di Cosenza), e da una linea che unisce, approssimativamente, il Circeo ad Accumoli a nord-ovest, fino alla strada Taranto-Ostuni a sud-est. Tale territorio arriva ad includere otto regioni italiane, tre delle quali (Campania, Molise, Basilicata) per intero. Si tratta, ad eccezione delle Marche meridionali, di terre appartenenti al Regno di Napoli. Per contro, nel territorio del Regno erano presenti anche alcuni dei dialetti oggi classificati come italiani mediani: l'aquilano, l'amatriciano, il carseolano ed il cicolano, oltre naturalmente ai dialetti meridionali estremi del Salento e della Calabria meridionale. Il tratto principale che separa i dialetti alto-meridionali dai dialetti meridionali estremi è il trattamento delle vocali non-accentate (“atone”) finali: nei primi, tranne alcune eccezioni (come si dirà di seguito), esse subiscono un mutamento in /ə/ (vocale popolarmente definita “indistinta”), mentre ciò non avviene nel dialetti del Salento né in quelli della Calabria meridionale che costituiscono così i territori peninsulari del diasistema linguistico a vocalismo siciliano. A nord, questo stesso fattore forma anche il confine (sfumato e graduale in alcune aree limitrofe) coi dialetti mediani, che hanno sette vocali fonemiche accentate, e solo cinque non-accentate. La presenza di un'ulteriore vocale (/ə/) nell'Alto Meridione implica un sistema fonemico diverso da quello calabrese e siciliano (in cui /ə/ è asistematica, o del tutto assente, e comunque di natura puramente fonetica). Nei dialetti alto-meridionali il mutamento in /ə/ ("affievolimento"/"indebolimento") delle vocali non-accentate è sovente associato a complessi fenomeni morfologici, quali ad esempio la metafonesi. I principali sottogruppi dei dialetti italiani alto-meridionali sono i seguenti: dialetti abruzzesi e marchigiani meridionali, comprendente l'Abruzzo (fatta eccezione per la porzione occidentale della provincia dell'Aquila), l'appendice nord-occidentale della provincia di Isernia, nel Molise, e la provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche; dialetti molisani, comprendente il Molise (fatta eccezione per l'appendice nord-occidentale della provincia di Isernia) e le zone più settentrionali delle provincie di Benevento, in Campania, e di Foggia, in Puglia; dialetti pugliesi centro-settentrionali, comprendente la stragrande maggioranza della regione Puglia (fatta eccezione per il Salento e per le zone rispettivamente più a nord e ad ovest della provincia di Foggia); dialetti campani, comprendente la Campania (fatta eccezione per l'appendice più a nord della provincia di Benevento e per il Cilento meridionale), le zone più ad ovest della provincia di Foggia, in Puglia, e le porzioni meridionali delle provincie di Frosinone e di Latina, nel Basso Lazio; dialetti lucani e calabresi settentrionali, comprendente la Basilicata e la maggior parte della provincia di Cosenza, in Calabria.
Il termine dialetto indica, a seconda dell'uso: una varietà di una lingua, un idioma locale che ha perduto autonomia rispetto ad un altro divenuto sociopoliticamente dominante e riconosciuto come ufficiale (detto anche "lingua tetto"), con cui spesso ha una certa affinità e origini simili.Questa seconda accezione viene spesso usato nella sociolinguistica italiana, in analogia al francese patois, per riferirsi ai dialetti italiani, derivati dal latino. L'uso del termine dialetti per riferirsi alle lingue regionali italiane è talvolta contestato in quanto lascerebbe intendere un minor prestigio e dignità rispetto all'italiano standard. Altri apprezzano il termine come utile strumento di analisi per chi a vari livelli lavora per il salvataggio delle lingue minoritarie e regionali, che per sopravvivere devono liberarsi dal proprio stato di "dialetto", ovvero di lingue "dialettizzate".
I dialetti dei Castelli romani fanno parte della categoria di dialetti appartenenti alla famiglia marchigiana-umbro-laziale, detta italo-mediana. Sono di difficile classificazione perché, pur aventi originariamente caratteristiche laziali in continuità con la Ciociaria e i monti Lepini, soprattutto nella zona settentrionale già da metà ottocento risultano fortemente influenzati dal romanesco (sdoppiamento di '-RR-' latino, tèra per 'terra') e dall'italiano, e inoltre presentano spesso un caratteristico fenomeno di metafonia (metafonia sannita come a Velletri) che li distingue dai dialetti laziali e li accosta da questo punto di vista ai dialetti meridionali. Inoltre, pur nell'ambito laziale, presentano alcuni tratti fonologici più vicini al dialetto sabino che a quello ciociaro (vocalismo arcaico a Marino). Il poeta Gioacchino Belli distingue in un suo sonetto romanesco del 16 dicembre 1832, intitolato "Le lingue der Monno", i dialetti dei forestieri tra quelli parlati dalla gente dei Castelli Romani e dei Burrini. Infatti il poeta declama: Sempre ho ssentito a ddì cche li paesi hanno oggnuno una lingua indifferente, che dda sciuchi l'impareno a l'ammente, e la parleno poi per èsse intesi. Sta lingua che ddich'io l'hanno uguarmente Turchi, Spaggnoli, Moscoviti, Ingresi, Burrini, Ricciaroli, Marinesi, e Ffrascatani, e ttutte l'antre ggente. Il poeta si riferisce a Burrini come ai villani di Romagna, agli Ariccini come abitanti di Ariccia, ai Marinesi come abitanti di Marino, ai frascatani come abitanti di Frascati. Fanno parte del gruppo dei dialetti dei Castelli Romani: Dialetto marinese Dialetto rocchiciano (ossia di Rocca di Papa) Dialetto frascatano (ossia di Frascati) Dialetto albanense (ossia di Albano Laziale) Dialetto castellano (ossia di Castel Gandolfo) Dialetto monticiano (ossia di Monte Compatri) Dialetto monteporziano (ossia di Monte Porzio Catone) Dialetto ariccino (ossia di Ariccia) Dialetto velletrano (o veliterno, cioè di Velletri) Dialetto genzanese (ossia di Genzano di Roma) Dialetto lanuviese (ossia di Lanuvio) o civitanoAltri di questi dialetti presentano grandi somiglianze fra loro. Il dialetto di Grottaferrata farebbe anch'esso parte di questo gruppo, ma la sua genesi è troppo recente e composita, mentre per quanto riguarda il veliterno, esso è considerato da alcuni studiosi come appartenente alla famiglia ciociara, per cui si potrebbe considerare quasi un "ponte" tra i due gruppi. Infine i dialetti di Cisterna di Latina, Anzio e Nettuno presentavano in origine, malgrado una certa distanza, caratteristiche molto affini a quelle dei dialetti dei Castelli Romani, vicine a quelle del Velletrano e di transizione con l'area lepino-ciociara, ma molte di esse sono sparite per via di un processo di "romanizzazione" ancor più accentuato. Tali località sono situate infatti in una posizione intermedia tra Roma e le aree pontine della provincia di Latina, per cui gli influssi del romanesco si sono rivelati più intensi e massicci; i dialetti dei Castelli invece riescono ancora leggermente a contenere l'avanzata del romanesco, per via soprattutto della loro posizione collinare più appartata, che favorisce un maggiore isolamento, anche se ormai le generazioni più giovani risultano anche qui pressoché completamente "romanizzate", data la continua frequentazione della capitale, considerata punto di riferimento non solo lavorativo o di studio ma anche linguistico, cioè portatrice di una varietà dialettale di maggior prestigio.
I dialetti bolognesi montani medi sono parlati sul medio Appennino bolognese nella zona tra la fascia collinare e la montagna alta, dove arrivano nella loro diffusione più meridionale fino a Porretta. Sono una varietà del dialetto bolognese, le cui innovazioni si sono diffuse in questi luoghi in seguito alla dominazione della città di Bologna dall'alto Medioevo fino ai giorni nostri. I dialetti montani medi presentano tratti grammaticali comuni al dialetto bolognese cittadino, ma anche elementi fonetici di transizione con i dialetti bolognesi montani alti parlati nella fascia al confine con la Toscana.