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Strage di Niccioleta

Il 13 giugno 1944, i reparti tedeschi e fascisti irruppero a Niccioleta per punire i suoi abitanti che, come in molte zone del grossetano, avevano rifiutato di presentarsi ai posti di polizia fascisti e tedeschi di Massa Marittima, in seguito ad un manifesto affisso in tutti i comuni della provincia di Grosseto, firmato da Giorgio Almirante. Sei minatori (Ettore Sergentoni, con i figli Aldo e Alizzardo, Rinaldo Baffetti, Bruno Barabissi e Antimo Ghigi) vennero fucilati subito nel piccolo cortile dietro il forno della dispensa, largo non più di tre metri. Il minatore Giovanni Gai riuscì a fuggire nella macchia, grazie ad un attimo di distrazione di un fascista di Porto Santo Stefano, Aurelio Picchianti, che si stava arrotolando una sigaretta. Altri 150 operai furono portati a Castelnuovo di Val di Cecina, e la sera del 14 giugno, 77 minatori vennero giustiziati sulla strada per Larderello, 21 deportati in Germania e gli altri liberati. In tutto perirono nella strage 83 operai di Niccioleta. Tra i cadaveri si scoprì successivamente che c'erano anche i componenti del famoso gruppo partigiano la "Banda di Ariano": Gianluca Spinola, Vittorio Vargiu, Franco Stucchi Prinetti e Francesco Piredda assassinati dai nazifascisti sempre il 14 giugno. l CLN di Massa Marittima aprì un’inchiesta, condotta dall’avvocato Tommaso Ferrini. Dopo una lunga istruttoria il giorno 7 novembre 1948 iniziò il processo davanti alla Corte d’Assise di Pisa che si concluse con la condanna, pronunciata il 19 novembre, di alcuni fascisti di Niccioleta per collaborazionismo ed omicidio. Non furono mai perseguiti coloro avevano ordinato ed eseguito la strage, il tenente Emil Block e le truppe tedesche ed italiane sotto il suo comando.

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