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Malattia di Wilson

La malattia di Wilson (un tempo detta anche morbo di Wilson), o degenerazione epatolenticolare, è un disordine genetico trasmesso in modo autosomico recessivo che determina l'accumulo di rame nei tessuti; i sintomi si manifestano a livello neurologico-psichiatrico e soprattutto a livello del fegato. Nei bambini l'esordio è spesso con sintomi epatici, mentre negli adulti sono i sintomi neurologici a esordire per primi. Si può manifestare tra i 5 e i 40 anni, e gli esordi precoci corrispondono a un decorso più grave, pericoloso e rapido. I sintomi appaiono in genere tra i 6 e i 20 anni, anche se in alcuni casi sono stati descritti primi sintomi in pazienti molto più anziani.La condizione è dovuta a una mutazione nella proteina della malattia di Wilson (gene ATP7B). Una singola copia anomala del gene è presente in una persona su cento, senza determinare alcun sintomo, essendo la patologia causata da un gene recessivo (si tratta di portatori sani della malattia). Se un individuo eredita il gene da entrambi i genitori, è a rischio di manifestare la patologia. La malattia di Wilson ha un'incidenza di 2,66/100 000 con una prevalenza di 6,21/100 000. La malattia prende il nome da Samuel Alexander Kinnier Wilson (1878-1937), neurologo inglese che per primo descrisse la condizione nel 1912.Senza la cura, la malattia può essere facilmente letale in pochi anni, tuttavia esistono oggi farmaci efficaci in grado di controllarla; la cura prevede l'utilizzo di farmaci chelanti che riducono l'assorbimento di rame e ne rimuovono l'eccesso dall'organismo, farmaci di mantenimento, a volte fisioterapia, e un'adeguata dieta povera di rame, ma occasionalmente è necessario anche un trapianto di fegato in caso di grave insufficienza epatica. A causa della grande variabilità dei sintomi e del decorso, la diagnosi è raramente tempestiva, per cui i pazienti aspettano anche anni, con peggioramento dei sintomi, prima di sapere di esserne affetti e potersi curare. Comunque, se trattata adeguatamente, la malattia regredisce in buona parte e non riduce l'aspettativa di vita dei pazienti, che rimane identica a quella della popolazione sana, così come si può mantenere una buona qualità di vita; tuttavia il trattamento farmacologico e il monitoraggio devono proseguire in maniera costante e cronica per tutta la durata della vita.

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